Butterfly
Tossisco.
L'aria è fetida, riesco a malapena a vedere una malsana luce provenire da uno spioncino appena aperto.
"Ti do tre secondi per alzarti, figlio di puttana". Una aspra voce maschile risuona, parzialmente coperta dall'ingranaggio della serratura che scatta, mentre la porta metallica si apre.
Sono confuso, come mai lo sono stato, almeno per quanto riesca a ricordare. La testa mi fa male, sento delle punture nel cervello simili ad aghi conficcati per tutta la loro lunghezza. La nausea sta per sopraffarmi, e lo stomaco svuota il proprio contenuto sul pavimento già lurido, senza che io partecipi minimamente al suo operato. Vado fuori dalla stanza, non opponendomi a quello che identifico come il mio carceriere. Sono ammanettato senza alcuna grazia, le braccia doloranti legate, e mi viene assegnato un forte colpo nello stomaco, che mi tira fuori tutto il fiato dai polmoni.
Seguo senza discutere la guardia. Non sono in gradi di distinguerne i tratti somatici: i miei occhi non si sono ancora abituati alla luce. Trascino il corpo lungo il corridoio come se non fosse mio. Ormai non sento la stanchezza, ma altre le sensazioni ben più forti prendono il sopravvento non soltanto sul mio organismo ma anche sulla mia essenza più profonda.
Entro in una piccola stanza. Mi siedo su un duro sgabello, e pian piano riesco a intravedere ciò che ho di fronte.
O CHI ho di fronte.
Mi osserva con i suoi freddi occhi azzurri, mentre la bocca inespressiva pronuncia parole che non riesco ad afferrare. Il mio cervello è occupato a ricordare, a rimettere insieme i tasselli di un mosaico di cui non rilevo che un frammento. Ma ora comincio ad ascoltare, e la mente, che meraviglia la mente umana, si ricompone, come il trucco di una donna dopo una notte d'amore. "Buonasera Jacob", mi fa l'uomo. E' strano, non riesco a comprendere se fidarmi o meno. Annuisco.
"Bene, credo sia il nostro ultimo colloquio prima di domani. Vorrei che adesso lei rimettesse insieme assieme a me tutte le parti della nostra storia".
Riconosco quest'uomo, o almeno scocca una scintilla.
"Bene dottore: lei faccia le domande, io darò le risposte".
"Collaborativo, come sempre".
"Ma certo. Quali motivi avrei per agire diversamente?"
"Immagino nessuno. Dopotutto ormai la condanna è stata emessa".
"Già. Da dove vogliamo cominciare, dottore?"
"Dall'ultima, Jacob. La più significativa". Mi punta un pacchetto di sigarette, e io lo prendo con calma tra le mani. Sono quelle forti, le mie preferite.
"Bene, allora prendo fiato", dico aspirando quanto più possibile la sigaretta appena accesa. "E' cominciato tutto... Non ricordo quando.
Diciamo che è un momento particolare della mia vita, uno di quelli che puoi considerare come un punto di incontro tra le vecchie cose e quelle nuove, uno dei periodi in cui avverti lo stacco della frizione. Ma io evidentemente lo stacco l'ho dato troppo forte, perdendo il controllo della vita". Mi accorgo che mi fissa, e la cosa non mi piace. Glielo faccio notare con un blando cenno, tanto gli psichiatri queste cose le capiscono al volo. Così lui riprende a riempire il suo piccolo block-notes sulla scrivania.
"Mi trovo dentro un bar, uno di quelli di periferia, dove aspetti da un momento all'altro qualcuno che ti punti un coltello al fianco per toglierti tutto ciò che hai, persino l'anima. Sono seduto ad un tavolo, ovviamente solo. Sento la puzza che viene dai miei vestiti, e non so neanche io da quanto tempo non mi cambio. L'unico tanfo che non percepisco è quello di alcolici, visto che sono sempre stato astemio.
Accendo l'ennesima sigaretta della giornata. E' soltanto mattina, ma credo di essere già arrivato alla quinta. La gola è arsa ed ordino un aperitivo."
Il dottore ha rincominciato a squadrarmi, silenzioso come al solito, e sa bene che non lo sopporto. Eppure io non protesto, non riuscendo a smettere di parlare.
"Proprio mentre mi sono distratto guardando fuori alla finestra un paesaggio anonimo, come del resto lo è tutta la gente che mi sta intorno, capita una cosa che spezza la monotonia della giornata. Osservo la moretta e i due suoi amici spalancare la porta e gettarsi sul primo tavolo a disposizione. Le loro espressioni trasudano emozione e impazienza. Li studio e analizzo le loro mosse”. “Perché hanno destato il suo interesse?”
“Non saprei dirglielo dottore, o forse il seguito della storia potrebbe aiutarla a capire. Ma lei ha già compreso, dato che conosce la fine del mio racconto”.
“La conosco, si, ma ogni volta emergono fuori nuovi particolari. E’ sempre una storia nuova per me”. “Dovrei essere io ad analizzare lei”.
“Ma per ora sono io a farlo con lei. E non ha risposto alla mia domanda”.
“Come desidera. Intanto, come ho già lasciato intendere prima, ho notato una chiara eccitazione in loro, soprattutto nel viso della ragazza. E’ giovane, avrà al massimo diciannove anni. E’ carina e mi stupisco di trovare in una merda di bar come questo un tipo fine come lei. I suoi amici invece mi stancano subito: li conosco i tipi come loro, e si capisce subito che se la vogliono portare a letto ma non hanno le palle per chiederglielo”.
“Molto acuta come osservazione”.
“Risparmi il suo sarcasmo e ascolti, dottore”.
“Ma certo, Jacob”.
“Ormai la mia attenzione nel bar è stata attirata dalla ragazza e soffro anche di spiacevoli conseguenze fisiche. Mi alzo dalla sedia e corro nel bagno fuori dal locale. Tralascio il seguito, che non le interesserà”.
“Immagina bene”. Il dottore abbozza un sorriso che reprime quasi subito. Strano, eppure credevo che gli psichiatri non si imbarazzassero tanto facilmente. Almeno quelli che ho conosciuto fino ad ora non l’hanno mai fatto.
“I tre ragazzi continuano un discorso cominciato non so da quanto, ma riesco a coglierne parecchi particolari”.
“Persona acuta”, mi fa il dottore, ma non rispondo neanche. Il suo sarcasmo sta diventando insopportabile.
“A quanto pare la scuola sta per finire e loro non stanno più nella pelle. Hanno già pianificato il viaggio e osservano una cartina della zona tracciando infinite possibili rotte. La ragazza stappa una lattina di coca e beve. Provo una strana sensazione nell’osservarla, ma se ne aggiungono altre spiacevoli quando uno degli altri due si frappone tra me e lei”.
“Mi parli di quello dei due che più l’ha colpita”.
“Eppure mi pareva che l’attenzione fosse focalizzata su di lei”.
“Lei sta tentando di pilotare il discorso, ma lo fa in modo grossolano”, fa il dottore con aria da saccente. Non ha capito le mie intenzioni, e stavolta lo dimostra, ma io non glielo faccio pesare, rispondendo alla sua domanda da bravo bambino.
“Il tipo bassetto e poco atletico, con la barbetta. E’ bruttino ma la ragazza dimostra maggiori attenzioni nei suoi confronti”. “E l’altro?” aggiunge lo psichiatra prevedendo una domanda che chiunque avrebbe posto.
“L’altro si vede che ci sta male”, e sentendo questa frase il dottore risveglia il suo interesse ponendo una marcata sottolineatura al suo materiale cartaceo.
“Com’è vestita la ragazza?”
“Non capisco la pertinenza della domanda, dottore. Le risponderò quando riterrò opportuno”.
“Ritiro il collaborativo, Jacob: stasera non è il solito”.
“Siamo sempre diversi ogni giorno dal successivo, dottore”.
“Mi risparmi le sue frasi celebri come io ho fatto col mio sarcasmo e continui, per favore”.
“La ragazza si sporge per osservare meglio la cartina e io le ammiro il fondoschiena. Peccato che duri tanto poco. Poi i tre finiscono il discorso ed escono, ma non senza che io abbia compreso la loro destinazione”.
“Lei è paziente e ottimo ascoltatore, Jacob”
“Tutte doti necessarie al mio lavoro dottore”, gli faccio secco.
“Bene, ma prosegua, la prego”.
“Non molto altro da dire, dottore. Il resto lo può aver già dedotto dalle autopsie”.
“Non mi interessa cosa è successo, ma piuttosto come lei ha percepito il fatto”.
“Allora sarò breve. Prendono il loro camioncino e partono, mentre io a breve distanza li seguo con il mio mezzo. Adoro la mia moto, è così… potente, e dolce il suono del suo motore. Mi fa provare la velocità come se fossero le mie stesse gambe a correre, sento che nessuno potrebbe soffermare il suo sguardo su di me.
Il viaggio continua. Sono un asso nel non far accorgere che li sto seguendo. So nascondere le mie intenzioni altrettanto bene che le emozioni, e lei sa bene quanto sia difficile leggere la mia mente”. Mentre parlo accendo un’altra sigaretta. Lui non ne è affatto stupito. “Dopo una ventina di chilometri di strade di campagna gli stupidi non hanno ancora capito che li pedino come un segugio. Accostano e scendono, tutti e tre. La gomma si è bucata, e mentre uno di loro applica il cric la troietta va tra i cespugli. Probabilmente le scappa”.
“Mi scusi, Jacob, la mia non è una critica, ma la sua definizione non è diversa dal suo solito modo di parlare?”
“Quella se lo è meritato, dottore, e ora le spiego perché”. Evidentemente stavolta non sono stato abbastanza bravo, e il dottore se ne è accorto… Ma il ricordo è troppo chiaro, e le parole scivolano fuori come sangue da una ferita… Non riesco a capire cosa mi prenda. La nostalgia… “Farfallina”, dico senza rendermi neanche conto del perché. E la memoria violentemente si fa strada come la risata di un ubriaco. “Farfallina ti ricordo ancora, quando ti ho vista ero bambino, ti sognavo ogni notte. Ti ho portata a lei e la paura l’ha avvolta come un bozzolo. Ma tu non sai volare…”
“La prego continui” fa il dottore nascondendo a stento il suo entusiasmo. Conosco bene gli psicologi, vanno a nozze con queste cose. Di solito le definirei ‘stronzate’, ma siccome riguardano me, stavolta non mi sento di dirlo.
“La seguo lentamente nel bosco, e quando si abbassa i pantaloni vedo immediatamente quella cicatrice sulla coscia… Mi ricorda Sylvie, Farfallina”, continuo io, e devo avere un’espressione allucinata, talmente assurdo che se la vedessi in faccia a qualcuno tratterrei a stento la mia ilarità. Anzi, no, gli scoppierei semplicemente a ridere in faccia.
“Mi parli di Sylvie.”
“Sylvie, mia bella Sylvie”, faccio io continuando senza ormai seguire il mio interlocutore, “ami tanto le farfalle e io te porgo una. Ma perché hai un viso tanto pieno d’orrore? Forse perché la farfalla non è ancora formata? Forse perché la estraggo dal bozzolo proprio davanti a te? Non dovresti indietreggiare, potresti cadere… Quanto sangue, Sylvie… Non pensavo che una ragazzina esile come te potesse averne tanto in corpo… Eccola, ora me la ritrovo davanti, solo cresciuta, di cinque anni più grande… Stessa cicatrice… Ma questa volta ti fermerò, Sylvie, non ti farò di nuovo precipitare dal ponte…”
“E cosa ha fatto per impedirlo?”, sussurra il dottorino ormai quasi sotto una epifania mistica. Una rivelazione di certo delusa. “La abbraccio quanto più forte posso. Le sue labbra sono livide, il suo viso ormai paonazzo. le voglio baciare. Ma il dolore che provo in questo momento per la botta ricevuta mi fa lasciare la presa. Torno subito, amore, le faccio. Mi giro e mi ritrovo i due stronzetti di prima che vogliono salvarla, colpendomi col cric. Idioti! Sono io che la sto sottraendo alla morte! Volete che si butti? Un istante e il mio pugno fa volare i denti di quel novellino come dolcetti ad Halloween. Un altro ancora e pianto il mio fedele serramanico nell’occhio del secondo”.
“Sono tutti e tre stesi a terra ora. E lei cosa fa?”
“Sa dottore, non so perché ma in quel momento nel mio cuore manca qualcosa. La sinfonia che odo non è intonata: la ragazza si sta riprendendo, e voglio una voce femminile nella mia orchestra di urla”.
“Ma lei voleva salvarla, oppure ho capito male?”
“Io voglio salvare Sylvie, ma è morta da anni ormai…”
“Ma allora cosa è successo veramente quel giorno alla sua vittima, Jacob?“
“Bacio la mia Butterfly, dottore, e sento lei che riprende colore. Comincia a dimenarsi… Ma perché mi eviti, tesoro? Stavolta non ti lascio scappare, non permetto che tu rifiuti il mio regalo. Guarda cos’ho per te, amore mio”.
“E cosa le regala?” fa lo psichiatra. Il suo entusiasmo si è trasformato in colorito paonazzo.
“Ma lei è vivo, dottore?”
“Concluda la sua storia”.
“Il mio regalo glielo affondo piano piano nella pancia. La sento urlare progressivamente, ma non è abbastanza forte. Voglio che l’orrore sia almeno come quello di Syvlie mentre guarda la mia farfalla. Poi, mentre il mio coltello penetra nelle budella faccio dolcemente l’amore con lei. E’ felice, sa dottore? Lo sento chiaramente dai suoi spasmi nervosi. E tutto il sangue che esce dalla ferita… è una prova che è stata fedele soltanto a me, come la giovane Sylvie non ha invece fatto”. “Abbiamo concluso, Jacob. Ci rivediamo tra due giorni. La ringrazio”. Lo osservo e ridacchio, sono confuso, triste, felice, entusiasta, depresso. Tutto insieme, come al solito”.


Sono seduto, perfettamente sveglio e cosciente. La luce è forte, mi penetra nelle pupille, mi provoca dolore come un ago arroventato. Quando posso abituarmi vedo il boia che mi osserva da lontano. Nascosto, noto il dottore che mi fissa. Non posso fare a meno di sorridergli, visto che dopotutto mi ha aiutato, a modo suo. Gli istanti passano velocemente, il rumore del mio cuore è ritmico e lento, come in una moviola. Il pulsante viene premuto.


Mi risveglio, il sudore mi cola dalla fronte. Ho gli occhi sbarrati, lo capisco dallo specchio che ho davanti. Non posso fare a meno di accendermi una sigaretta. Quando la porta si apre non riesco nemmeno a parlare.
“Come stai adesso? Spero che le tue condizioni siano migliorate, ma poi non dire che non ti avevo avvertito”.
“Tra qualche ora starò meglio”, gli faccio accendendomi una sigaretta.
“Sono sicuro che il tuo esperimento ti consentirà di avere il dottorato di ricerca col massimo dei voti, e che ti consentirà di entrare nell’ambiente accademico in pochissimo tempo. E’ sempre stato il tuo più grande desiderio, non è vero?”
“Ciò che mi spinge, professore, è la comprensione della mente umana, e non la fama, la ricchezza o qualsiasi altro obiettivo”.
“Ma stavolta hai scelto un paziente pericoloso. Non pensavo si potesse arrivare fino…”
“Alla immedesimazione completa, professore? Ha sempre detto che la mia empatia è estremamente sviluppata… Eppure ciò che mi ha colpito non è stato che il mio paziente fosse un assassino plurimo, ma che si trattasse di uno psichiatra come me. Mi ha mostrato che nessuno, tantomeno un medico, è immune alle malattie, soprattutto le turbe psichiche.
“Cosa hai sentito quando eri lui?”
“Non so, professore. Forse lo stesso che ha provato lui a essere me. Durante i lunghi mesi di sedute è stato inevitabile per me entrare nella sua mente tanto in profondità e comprenderlo talmente bene da ragionare come lui, da essere lui. Ma non pensavo che quell’uomo potesse fare lo stesso con me”.
“Non credi che tutto questo possa avere delle conseguenze sulla tua psiche, Robert?”
“Può darsi professore, ma ci penserò poi. Ora mi lasci riposare”.
“D’accordo, a presto caro amico mio, rimettiti”, mi fa lui lucido, ma osservando preoccupato la mia mano.
La mano che tiene tra le dita una sigaretta.
La mia prima sigaretta.
Mai fumato in vita mia.
Mi giro verso lo specchio e nella mia immagine rivedo il suo sorriso beffardo. Chissà se riuscirò a comprendere appieno. E chissà se rivedrò la mia piccola, dolce Butterfly.


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